Teatro

Quando c'era Gaber: Andrea Scanzi racconta il Signor G

Quando c'era Gaber: Andrea Scanzi racconta il Signor G

Tappa esclusiva in Puglia per il primo spettacolo firmato da Andrea Scanzi; il giornalista aretino porta in scena con rinnovata passione il suo Gaber se fosse Gaber. Lo abbiamo incontrato poco prima che salisse sul palco del Teatro Giordano di Foggia

Prima volta in Puglia e al momento unica tappa nazionale per Gaber se fosse Gaber, spettacolo scritto e interpretato da Andrea Scanzi che, dopo 130 repliche in tutta Italia è andato in scena al Teatro Umberto Giordano di Foggia martedì 15 marzo. Il giornalista del Fatto Quotidiano, già impegnato con la tournée del suo nuovo spettacolo "Il sogno di un’Italia", occasionalmente tira fuori dal cassetto questo suo primo lavoro teatrale; un’intensa ma asciutta biografia del cantautore milanese, un incontro-spettacolo che alterna immagini e filmati dell’epoca, al racconto del trentennale percorso artistico del “Signor G”. E lo fa con evidente e rinnovata passione.

Come nasce questa passione per Giorgio Gaber?
Colpa di mio padre, che era totalmente innamorato di Gaber; lo andava sempre a vedere a teatro e nel 1991, per la prima volta, mi portò a Fiesole a vedere un suo concerto, dove scattai alcune fotografie che hanno avuto molta fortuna e che mostro anche durante lo spettacolo. Vedere Gaber su un palcoscenico voleva dire rimappare completamente la propria esistenza, perché significava vedere su un palco un fenomeno inaudito, che ti raccontava delle cose che nessun altro ti diceva, in modo straordinario: un personaggio che era bello da vedere sulla scena, che generava appartenenza. Sì, direi che lì è nato un amore totale.

Un amore che porta in scena questo spettacolo da quasi 5 anni...
Sì! E non è nata come una tournèe. La fortuna ha fatto sì che vent’anni dopo la prima volta che ho visto sul palco Gaber, abbia esordito con uno spettacolo a lui dedicato. Era una data unica a Voghera nel febbraio 2011, ci siamo divertiti, lo spettacolo è piaciuto, da lì è partito il passaparola e ad oggi siamo arrivati a 130 repliche.

Con Le Cattive Strade ha raccontato anche la vita e l’arte di Fabrizio De Andrè. Con Gaber, sono due protagonisti del loro tempo, artisti che non potrebbero essere slegati dal contesto. I tempi moderni non sembrano invece regalarci grandi personalità, come  lo spieghi?
È come nel calcio, anche lì ci sono delle annate, dei decenni forti e meno forti; quello era un decennio ricco di grandi talenti. Poi ci son stati gli anni ’50 con Fossati, De Gregori, diciamo che dal ’60 in poi i grandi fenomeni, se non forse il primo Capossela, non sono più nati.

I cantautori non hanno più niente da raccontare?
E’ cambiato un po’ tutto, anche il ruolo stesso del cantautore, ma non credo che non abbiano più niente da raccontare. Sicuramente è cambiato il contesto storico; i cantautori al tempo di Gaber e De Andrè avevano un ruolo sociale ed erano anche una sorta di fratello maggiore. Le persone si fidavano del ruolo del cantautore, forse anche troppo, tendevano ad idealizzarne il concetto. Adesso il cantautore canta ma, tutto sommato, alla gente frega poco. Poi c’è anche un problema discografico: al tempo, la musica si ascoltava, si comprava, si andavano a vedere i concerti, oggi la discografia è abbastanza emarginata. Per tutti questi motivi non esisterà più un Gaber, non esisterà più un De Andrè e mi dispiace molto dirlo.

L’importante è che ci siano stati e che li ascoltiamo ancora oggi...
Esatto, prima dicevi che sono molto legati al loro tempo, che è vero soprattutto per Gaber, però ascoltando Giorgio e Fabrizio ci si accorge che sono molto più attuali di quanto si creda. Con De Andrè è facile perché racconta l’amore, la morte, la guerra, dei macrotemi che non possono invecchiare: la "Canzone di Marinella" o "La Guerra di Piero" vanno bene tanto negli anni ‘60 quanto nel 2016. Per Gaber è diverso perché racconta profondamente il suo presente: la morte di Aldo Moro, il terrorismo, gli anni ‘80 edonistici di Craxi; quando lo ascolti puoi pensare che quella musica sia invecchiata, ma non è affatto vero perché, da una parte, ti permette di raccontare quel decennio meglio di qualsiasi libro di storia, dall’altra ti rendi conto che, come capita con certi articoli di Pasolini,  ti racconta il 1974 ma, in realtà, ti sta raccontando soprattutto l’oggi.

Nei tuoi spettacoli racconti e rivivi il passato: sei una persona nostalgica?
No, me lo chiedono spesso ma non sono nostalgico, il problema è un altro. Credo che nel passato, quello di Gaber e di De Andrè, ci fossero dei momenti di grandissima difficoltà, delle asperità tremende ma anche un livello di coscienza un po’ più alto, una propensione maggiore all’indignazione, una maggiore tendenza ad appartenere e ad essere meno soli, a credere in progetti condivisi e nell’ideologia, nei sogni e nelle utopie  e quell’aspetto un po’ mi manca, è vero. Ma non credo di essere nostalgico. Per esempio, trovo che il momento più bello della mia vita sia proprio questo. Non ho il rimpianto dell’avere venti anni, non me ne frega niente, anzi a qull'età ero molto irrisolto e noioso: non mi manca per niente quel tempo. Sono felicissimo di vivere questo presente che credo si possa cambiare anche attraverso quello che scrivo, racconto e dico sul palco; secondo me, chiunque ha un minimo di intelligenza e raziocinio deve anche raccontare le asperità e le tristezze di questo tempo; trovo che siamo in un presente molto dolente e triste, dove tendiamo ad addormentarci senza renderci conto di essere addormentati e, anche per questo, il ruolo dell’intellettuale, del giornalista deve essere quello di scudisciare il suo pubblico ogni tanto, di fargli male, per svegliarlo.

Cosa ti piace andare a vedere a teatro?
Recentemente ho visto la trasposizione fatta da Bisio del libro di Serra "Gli Sdraiati". Cerco più o meno questi spettacoli, non il teatro classico. Mi è molto piaciuto Bergonzoni che trovo straordinario. Mi diverte vedere Travaglio che, però, fa un teatro molto simile al mio o meglio io lo faccio simile a lui, perché io sono arrivato molto dopo. Mi diverte andare a vedere qualche amico come Simone Cristicchi, che fa delle cose splendide, Moni Ovadia che è molto bravo. Però ci vado meno di quanto vorrei e qui sì che divento un po’ nostalgico: mi mancano quegli anni dai diciotto ai venticinque quando andavo a vedere dal vivo Fossati, Gaber, De Andrè, poi Iannacci, Bennato, Battiato... ecco quella fase un po’ mi manca. Sì, forse la nostalgia ce l’ho da spettatore.